«Occhipinti, insonne, insisteva nell’ordinare champagne: le ho portato in sostituzione dello stesso dell’acqua, ma ha dimostrato, rovesciandomela in testa, di non gradirla. Tutti gli altri signori ospiti hanno dormito, tranne la signora Agosta, che continua ad andare al gabinetto e spacca tutto. Altro nulla da segnalare»
Il contesto è quello immediatamente successivo all’applicazione della L. 180, nota come Legge Basaglia che impose la chiusura dei manicomi regolamentando soluzioni specifiche per il trattamento sanitario obbligatorio, fino all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale che di fatto recepì la quasi totalità degli articoli della Legge 180 istituendo i servizi di igiene mentale pubblici.
Siamo quindi a Torino, tra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ‘80, nel passaggio delle strutture manicomiali da chiuse ad “aperte”, in quello che fu tra i primi esperimenti di “reparto aperto”, il Mauriziano di Torino. Al Mauriziano si tentava di applicare la legge voluta da Franco Basaglia, adattandola alle persone e alle loro necessità.
Il libro di Francesca Valente, vincitore del Premio Italo Calvino 1921, trae origine da appunti e “rapportini” del personale sanitario del Mauriziano, raccolti e conservati dallo psichiatra del “repartino” Luciano Sorrentino che un giorno andò a casa dell’autrice affidandole uno scatolone pieno di tutte le carte che aveva accumulato negli anni.
I sanitari che finivano il turno informavano chi li avrebbe sostituiti attraverso i rapportini su quanto era accaduto nelle ore precedenti.
Appunti a volte comici e a volte violenti, redatti talvolta con benevolenza e sforzo di comprensione, a volte meno, ma che mostrano una umanità dolente ed imbarazzata tanto tra il personale sanitario, ancora non avvezzo a questo nuovo corso, che tra quei pazienti che dovevano riabituarsi al ritorno in una società “libera”.
A queste testimonianze, riportate con carattere tipografico diverso per meglio individuarle, si affiancano racconti vari, le biografie dei pazienti, quella di Luciano Sorrentino lo psichiatra e del personale sanitario, enfatizzando profili umani fuori dalla retorica e rimarcando quanto sia labile il confine tra sani e malati.
Una lettura assolutamente originale e coinvolgente che ricompone frammenti di storie individuali in una storia collettiva.
Una piccola premessa dell’autrice
Anni fa, lo psichiatra Luciano Sorrentino, con cui da molto tempo coltivavo un’amicizia profonda, si presentò a casa mia con una pila di quadernoni sbrindellati, li appoggiò a terra davanti a me e mi disse: «Ecco qui». Quei quaderni, chiarí, erano i cosiddetti “rapportini” che gli infermieri del reparto Spdc, il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’Ospedale Mauriziano di Torino, compilavano alla fine del loro turno perché medici e infermieri fossero a conoscenza di tutti gli accadimenti e le preoccupazioni che riempivano quelle stanze. Ciascun quaderno riportava sulla copertina, sciupate dal tempo, le parole «Osservazioni» o «Rapportino» e le date: dal 1980 al 1984, ognuno una manciata di mesi. Erano gli anni in cui Sorrentino aveva lavorato nell’Spdc del Mauriziano, uno dei primi, e rari, esperimenti in Italia di reparto aperto, nato con la promulgazione della Legge 180 che decretò il superamento dei manicomi e il divieto di costruire nuove strutture psichiatriche manicomiali. […] Convinto da sempre della sensatezza delle idee di Franco Basaglia, coadiuvato da alcuni colleghi e infermieri, Sorrentino aveva cercato una soluzione alternativa e umana alla reclusione del malato psichiatrico, privilegiando la relazione e il dialogo. L’obiettivo era non ricreare in alcun modo la logica manicomiale, rigettando nuove forme dell’istituzione solo in apparenza diverse da quella che era appena stata demolita. Il pericolo che si riproponessero luoghi ghettizzanti era reale e fondato: ne erano ben consapevoli Basaglia e la basagliana Psichiatria Democratica, che stilò una serie di linee guida per l’applicazione concreta della Legge negli Spdc – i reparti ospedalieri dove sarebbero avvenuti il controverso trattamento sanitario obbligatorio e il ricovero volontario –, che avrebbero dovuto rappresentare un ponte tra i pazienti e i servizi territoriali, tra gli operatori e le famiglie. […]