Buona la seconda. Dopo la prima uscita di Pierluigi Bersani da Bettòla Piacentina – neosegretario del PD – impegnato a fare l’improbabile operaista del Terzo Millennio nello stabilimento tessile della Villanti di Prato (davanti a un pubblico in prevalenza di giornalisti e imprenditori), riecco il politico che si conosceva in quella successiva, a commento pompieristico dell’ormai ben nota sentenza della Corte di Strasburgo: «Un’antica tradizione come il crocifisso non può essere offensiva per nessuno. Penso che su questioni delicate come questa qualche volta il buonsenso finisce di essere vittima del diritto», sentenzia il Nostro.
Qualcuno annota: gesuitismo? Fintotontismo? Ma no, nient’altro che la solita politica normalizzata che tira mediocremente a campare, aborrendo chiarezza e coraggio; Bobbio palava di “laicità della politica”.
Del resto questo è quanto ha passato il convento delle primarie, in cui non ha votato un pezzo di società alla ricerca di chi incarni un progetto (mandare il berlusconismo a quel paese), bensì un popolo in ansia da conferme di appartenenza.
Ormai la lettura relativa è sufficientemente chiara, sulla base di innumerevoli indizi: dallo scarso peso nella vicenda del voto di opinione, in sostanza rappresentato dalla (più che minoritaria) mozione Marino, alla singolare coincidenza percentuale tra i voti espressi nella consultazione interna e in quella aperta: insomma, l’espressione di quanto resta di antiche strutture funzionariali che mantengono collegamenti ancora saldi con residui bacini di simpatizzanti (vuoi antico PCI, vuoi della sinistra DC).
Domanda di appartenenza che non chiede cambiamenti ma conferme, continuità e rassicurazioni nei modelli di rappresentazione e comportamento che ha interiorizzato da tempo ormai immemorabile. Ma anche il mantenimento di piccole rendite personali su cui magari campa, specialmente per la non troppo piccola tribù degli apparatčiki, fornitrice di buona parte dei 50mila “volontari” che hanno reso possibile l’evento-primarie, in larga misura devoti al padre nobile della candidatura bersaniana: Massimo d’Alema, l’uomo del realismo politico come puro cinismo.
In attesa che il berlusconismo si consumi per autocombustione, sembra abbastanza improbabile che questa politica minore smarrita nel retrò e nel luogo comune, questo Mondo Piccolo rinsecchito, possa determinare altro che la propria ennesima messa in un angolo. Anche perché non sembra avere fiches da puntare sul banco da cui l’attuale blocco dominante (la neoborghesia degli impauriti e degli abbienti di osservanza berlusconiana) ricava la prima risorsa per la propria egemonia: il controllo dei canoni sociali dell’apprezzabilità con cui ha sovvertito criteri di giudizio e relegato antichi valori nel dimenticatoio.
Cosa aspettarci dall’uomo di Bettòla Piacentina, con quella faccia un po’ così di chi è andato alla sagra del raviolo fritto col vestito buono ma subito si sbottona la camicia e allenta la cravatta. Sia chiaro, Coco Chanel era figlia di un contadino bretone ma ha insegnato il gusto al Novecento. Questi sono solo dei parvenu che arrivano nei presunti salotti buoni del Potere e ne sono annichiliti, si affrettano ad adottarne le regole più bieche anche per sembrare “gente di mondo”. Berlusconi e i suoi, pessimi ma assai più scafati, se li mangiano in un boccone.
Spiace dirlo, visto che ognuno di noi ha qualche coppia di amici che l’altra domenica si erano messi in coda per votare alla primarie, magari Bersani (“il suo programma è migliore”, ma va là); convinti com’erano di servire la democrazia. Spiace dirglielo: per salvare la democrazia italiana bisognerà osare di più. Molto di più.
di Pierfranco Pellizzetti
via Il luogocomunismo inoffensivo di Pierluigi Bersani – micromega-online – micromega.