In ricordo di Tina Merlin e del suo “Sulla pelle viva”

Tina Merlin, figlia di Cesare Merlin e Rosa Dal Magro, nacque a Trichiana il 19 agosto del 1926. Sua madre Rosa, aveva avuto già due figli dal suo primo matrimonio con Benvenuto Tacca, ma dopo la morte di Benvenuto, si era risposata con Cesare nel 1910. Tina era l’ultima di sei fratelli: Ida, Giuseppe Benvenuto, Remo, Antonio e Giuseppina.

La famiglia di Tina era unita e numerosa, ma segnava una particolare differenza quella del fratello Antonio, il quale avrebbe seguito il coraggioso percorso del partigiano. Antonio divenne infatti comandante del battaglione “Manara”, che poi si unì alla brigata partigiana autonoma “7º Alpini”. Purtroppo, Antonio perse la vita in combattimento, ma il suo spirito battagliero influenzò anche Tina, che nel luglio del 1944 decise di unirsi alla Resistenza come staffetta, portando messaggi e informazioni vitali per la lotta contro l’occupazione.

Nel 1949, Tina sposò Aldo Sirena, anch’egli partigiano e uno dei primi organizzatori del CLN di Belluno. Insieme, ebbero un figlio a cui diedero il nome di Antonio, in onore del fratello di Tina. La vita di Tina prese una svolta significativa quando iniziò la sua carriera di giornalista, pubblicando racconti nella sezione Pagina della donna del quotidiano l’Unità. La sua penna acuta e il suo impegno la portarono a lavorare come corrispondente a Belluno, Milano, Vicenza e Venezia per lo stesso giornale, dal 1951 al 1982.

Nel 1957, il talento di Tina brillò ancora di più quando i suoi racconti sulla Resistenza – “Storia di Alfredo”, “Quell’autunno del 1943” e “La beffa di Baffo” – furono pubblicati sul Pioniere. Ma Tina non era solo una scrittrice; era anche una fervente attivista politica. Dal 1964 al 1970, fù consigliera provinciale del PCI e nel 1965 contribuì a fondare l’Istituto Storico Bellunese della Resistenza, oggi conosciuto come ISBREC.

Oltre a scrivere e a partecipare alla vita politica, Tina si dedicò a dare voce a chi non ne aveva, specialmente quando si trattava della costruzione della diga del Vajont. Attraverso i suoi articoli, Tina denunciò i pericoli che la diga rappresentava per i paesi di Erto e Casso, nonostante le istituzioni la ignorassero. Il conte Vittorio Cini, presidente della SADE, non esitò a denunciarla per “diffusione di notizie false e tendenziose”, ma nel 1960 Tina fu assolta dal giudice Angelo Salvini.

Quando il disastro del Vajont colpì la notte del 9 ottobre 1963, Tina non poté restare in silenzio. Tentò di pubblicare un libro intitolato “Sulla Pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont”, ma trovò un editore solo vent’anni dopo, nel 1983. Durante il processo sul disastro, Tina insistette per avere accesso alle informazioni come gli altri giornalisti, affrontando con determinazione le gerarchie militari che dominavano il tribunale.

Dopo una vita di battaglie e di difesa della verità, Tina si ritirò in pensione circa dieci anni prima di soccombere a un tumore, il 22 dicembre 1991, a Belluno. Aveva 65 anni. Il giorno successivo, la sua comunità le rese omaggio con un rito civile presso il cimitero cittadino, ricordandola non solo come una brillante giornalista e scrittrice, ma come una donna che aveva lottato instancabilmente per la giustizia.

Quella che segue è la prefazione di Giampaolo Pansa all’edizione del 1997 del suo libro “Sulla pelle viva” e sembra che dal tragico evento del Vajont assai poco sia cambiato nei rapporti della politica con la corruzione, il profitto e la disattenzione nei confronti di collettività che contano solo quando possono garantire interessi e malaffare dei potentati economici.

«Oggi, chi si ricorda del Vajont? Chi conosce la sua vera storia dall’inizio alla fine? I giovani non possono sapere, perché sono nati dopo. Gli anziani hanno vissuto, in questi venti anni, tante altre tragedie. I superstiti hanno rimosso quel fatto dalle loro coscienze, come unica possibilità di sopravvivenza. Ma si può dimenticare il Vajont?».

Questa domanda ce la scagliava addosso, dieci anni fa, il 16 ottobre 1983, da un articolo sul mensile «Patria», una donna che il Vajont non l’aveva certo dimenticato. Quella donna si chiamava Tina Merlin, una ragazza di Trichiana (Belluno), una ragazza diventata giornalista, una giornalista comunista, una giornalista e una comunista di tipo speciale, una donna anche lei da non dimenticare.

Tina aveva descritto così quel giorno, quella sera, quell’istante che avrebbe segnato per sempre la sua vita:

Inizia l’ultimo giorno. Il 9 ottobre 1963 è una stupenda giornata di sole. Di questa stagione la montagna è splendida, rifulge di caldi colori autunnali. La gente di Casso va e viene ancora dal Toc, portando via dalle case e dagli stavoli più cose possibili. Ma altra gente non vuole abbandonare le case e i beni malgrado l’avviso fatto affiggere dal Comune, pressato dalle richieste provenienti dal cantiere… [Viene la sera] e la gente, adesso, è tutta nei bar a vedere la televisione. Sono ancora pochissimi i televisori privati, e in eurovisione c’è la partita di calcio Real Madrid-Rangers di Glasgow. Due squadre molto forti, una partita da non perdere. E infatti molta gente è scesa dalle frazioni a Longarone, e anche da altri paesi della valle, per godersi lo spettacolo nei bar. La gente si diverte, discute, scommette sulla squadra vincente. Sono le 22.39. Un lampo accecante, un pauroso boato. Il Toc frana nel lago sollevando una paurosa ondata d’acqua. Questa si alza terribile centinaia di metri sopra la diga, tracima, piomba di schianto sull’abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra. A monte della diga un’altra ondata impazzisce violenta da un lato all’altro della valle, risucchiando dentro il lago i villaggi di San Martino e Spesse. La storia del «grande Vajont», durata vent’anni, si conclude in tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime.

Rileggo queste parole di Tina e mi chiedo: dov’ero, io, la notte dell’olocausto?

Avevo ventottanni, nove meno di lei, e tremavo in un’auto che correva alla disperata da Torino verso Belluno. Tremavo come poteva tremare, allora, un giovane giornalista mandato in un luogo sconosciuto a raccontare una storia orribile di cui, tuttavia, sapeva molto poco. Accanto me, Francesco Rosso, una «firma» di prima grandezza, ronfava tranquillo, col Borsalino schiacciato sugli occhi. «Perché non dorme anche lei?» mi diceva ogni tanto l’autista della «Stampa».

«Dorma dottor Pansa – mi ripeteva in dialetto torinese -perché domani mattina avrà da ruscare, avrà da faticare!». Ma io non potevo dormire. Sentivo proprio lì, alla bocca dello stomaco, una stretta feroce che mi teneva sveglio. Sveglio per la paura dell’inferno che avrei incontrato alla fine del viaggio. E sveglio per l’angoscia di non saperlo raccontare.

Così, nella foschia notturna della Val Padana, mentre l’auto correva e correva, cercavo di distrarmi imprecando contro i miei capiservizio che m’avevano fatto partire. Ma sì, imprecavo e nella testa mi martellavano le parole di uno dei due, Bruno Marchiaro:

«Appena abbiamo chiuso la ribattuta in tipografia, parti tu, col Cecco Rosso. Toh, prenditi la bozza della prima pagina. C’è anche una cartina: il posto si chiama Longarone».

Sino a mezzanotte, quella pagina era stata molto diversa. Una pagina tranquilla per un tranquillo mercoledì 9 ottobre 1963. John Kennedy vendeva il grano americano ai sovietici. Disordini a Roma per gli edili in sciopero. Monica Vitti tornava a girare un film con Michelangelo Antonioni. Poi, già oltre la mezzanotte, era emerso l’inferno. Crollata una diga sopra Belluno. Centinaia di morti. Una fiumana ha travolto un paese chiamato Longarone…

Quel titolo, quelle parole, erano lampi nel buio dell’auto che correva. Fiumana. Grande muraglia. Che cede di schianto. Enorme coltre di acqua e fango. Morti. Centinaia di morti… Chiudevo gli occhi, ma le parole dardeggiavano. Frecce roventi nel mio cervello. E dentro la mia paura.

Poi, con l’alba, le parole divennero immagini pietrificate. Il ponte di Susegana, carico di gente atterrita. Il Piave gonfio e nero. Il blocco dei carabinieri a Ponte nelle Alpi. Un paese, Faè. Poi un altro, Pirago. Si va di qua per Longarone? Sì, andate dove volano i corvi. Dopo Pirago, niente più strada. Ma non c’era la statale 51? Certo, era questa spianata di fango, pietre, detriti. Coraggio, giù dall’auto. In marcia sulla massicciata della ferrovia per Cortina. Quanti chilometri? Quattro. Cinque. Forse di più. Sino al deserto lunare del Vajont.

Gli inviati dei giornali di Milano stavano già tornando. Quelli de «Il Giorno» erano stati i primi ad arrivare. Guido Nozzoli, angosciato, con le brache infilate in stivali da cow-boy.

Franco Nasi, sgomento. Giorgio Bocca, ingrugnato. Nozzoli, un romagnolo tarchiato che era stato partigiano con «Bulow», Arrigo Boldrini, dopo avermi squadrato mi chiese:

«Quanti anni hai?».

«Ventotto».

«Allora tu la guerra non l’hai vista. Vai avanti che la vedrai».

Avanti, allora, avanti verso la mia guerra. Camminavo e scrivevo sul taccuino. Sgorbi che poi avrei decifrato con fatica. E la diga crollata? Ma quale crollo? Eccola, quella maledetta diga. Intatta. Uno scudo gigantesco, disumano nella sua potenza. Brillante nel sole.

L’onda scagliata oltre quell’arco aveva generato…

Generato cosa? Esisteva una parola adatta a descrivere l’inferno che ci veniva incontro tra le montagne? Le parole possibili vennero consumate tutte. Strage. Sterminio. Delitto.

Grande delitto. Gigantesco crimine… A nessuno venne in mente l’immagine vera, la parola esatta. A nessuno tranne che a Tina. Lei sola fu capace di pensarla e di scriverla, quella parola: olocausto.

Ma in quell’ottobre 1963, Tina contava poco nel firmamento delle star giornalistiche, quasi tutte concentrate all’Hotel Cappello di Belluno. Per cominciare, era una donna, e in quel tempo la cupola informativa italiana risultava soltanto maschile. Poi non era un inviato speciale, bensì un semplice corrispondente di provincia. Infine scriveva per un giornale di partito e, per di più, per quel giornale che era «l’Unità» di un partito che era il PCI.

Nei confronti di Tina, dunque, funzionava un black-out spesso tre volte: maschilista, di rango professionale e di avversione politica. Certe grandi firme erano implacabili in questo black-out. E a malapena accettavano che qualcuno del loro rango, come Nozzoli ad esempio, si dichiarasse comunista o di sinistra. Messe insieme, queste star peggioravano, dando vita spesso a squadre tronfie, spocchiose, ubriache del loro primato di copie vendute. Squadre, o pool come si direbbe oggi, che si buttavano sempre da una parte sola: contro i rossi che erano sopravvissuti a Longarone e contro i rossi che da tutta Italia accorrevano a Longarone.

Come non ricordarli certi dialoghi inchiodati a un’ottusa faziosità? «Stanno arrivando i sindaci emiliani del PCI. Ma che ci vanno a fare a Longarone?».

«Sono stati partigiani da quelle parti. La gente del posto li ha sfamati, li ha vestiti, li ha protetti. Come potrebbero non venire nei giorni del Vajont».

«Balle. E’ solo propaganda. Ne approfittano per incitare all’odio politico. Oggi andiamo a rompere i coglioni ai comunisti del Vajont!».

E ci andavano davvero, anche se l’impresa non era per niente facile. A Longarone, infatti, ti tiravano le pietre. Te le tiravano tutti, rossi, bianchi, neri. I sopravvissuti avevano piantato tanti cartelli su quel deserto lunare. Un cartello per ogni casa scomparsa sotto l’ondata. E gli scampati ti gridavano: «Lei non può stare qui. Se ne vada. Qui c’era la mia famiglia!».

Imparai a camminare con rispetto tra i fantasmi di quelle case. Soltanto così la gente sembrava disposta a sopportarti. E senza guardare il tuo taccuino con diffidente rancore.

Esisteva un solo giornalista accettato, e anche amato: era Tina.

Sì, Tina che era una di loro, figlia di quella montagna, ragazza di quelle valli. Tina che aveva vissuto sin dall’inizio l’incubo della diga. Tina che, giorno per giorno, aveva visto crescere la paura e la rabbia della gente in lotta contro il colosso della SADE e contro lo Stato che s’era messo al servizio del colosso. Tina che era stata la prima a denunciare la minaccia del Vajont e dei suoi padroni. Tina che era stata processata e poi assolta per quei suoi articoli su «l’Unità», ammonitori e quasi presaghi dell’olocausto che si preparava.

Certo, Tina sapeva molto di più di noi. Aveva fatto quel che nessuno di noi aveva fatto.

Per questo soffriva scrivendo. E scriveva piangendo con rabbia. Si sentiva una scampata, una sopravvissuta. Ma anche chiamata a rendere giustizia per quei duemila morti. E non avrebbe più dimenticato.

Nell’ottobre del Vajont non sapevamo quasi niente di Tina Merlin. Parlo di noi della truppa informativa, s’intende. Anche per i giovani cronisti scrupolosi, come mi piccavo di essere io, era una collega di provincia sconosciuta e senza storia. Eppure, quella donna di 37 anni, di una bellezza semplice e schietta, una storia ce l’aveva. Era stata una giovanissima partigiana. Poi, diventata giornalista, aveva scritto migliaia di righe per raccontare i problemi, la fatica, le speranze della gente delle sue valli. Aveva stampato anche un libro di racconti sulla Resistenza, Menica. Poi s’era imbattuta nel dramma che avrebbe dato una svolta alla sua vita: il Vajont. Un dramma che per lei non si sarebbe mai più concluso.

Per noi, invece, la guerra di Longarone era destinata a finire presto.

E già dopo i primi giorni ci sorprendevamo a viverla con un distacco destinato ad aumentare sino a tramutarsi in una corazza d’indifferenza. Proprio così: non volevamo soffrire, volevamo soltanto raccontare.

Fu una mutazione che scoprii anche in me stesso. Passavo sbalordito tra gli orrori del Vajont e cercavo di non esserne toccato. Tentavo persino di non riflettere. Del resto, me ne mancava il tempo. Dovevo scrivere. Scrivere ogni giorno. Poi dettare al telefono il servizio. Poi correggere. Poi ridettare. Poi ripartire per il deserto di Longarone. E correre, correre. Per non mancare una notizia. E per far meglio degli altri. O almeno come gli altri.

Accettavo tutto con l’impassibilità del giovane cronista alle prese con il suo primo grande fatto. E così, giorno dopo giorno divenni vuoto di angosce. Diverso dal me stesso del 10 ottobre all’alba. Quasi uguale a quei turisti che, di sabato, intasavano la statale di Alemagna. Migliaia di auto. Ingorghi colossali. Un’occhiata al deserto. Poi tutti a Cortina.

Proprio così: di corsa verso il week-end. Lasciandosi alle spalle la rabbia di chi chiedeva giustizia. Contro la SADE. Contro l’ENEL. Contro lo Stato. Contro i burocrati. Contro la voglia di profitto che aveva preparato e perpetrato l’olocausto.

Poi, un giorno di fine ottobre del 1963, ce ne andammo anche noi come quei turisti. Ce ne andammo senza neppure la certezza sul numero dei morti. Duemila? Di meno? Di più?

Ma che importanza poteva avere, la dimensione esatta dell’olocausto, per chi si lasciava alle spalle la guerra del Vajont, il deserto di Longarone, le cataste dei morti nei sacchi di plastica dentro i cimiteri di Belluno, di Portegna, di Ponte nelle Alpi?

Qualcuno però rimase. Per esempio, rimase Tina Merlin. Non solo non voleva dimenticare. Non voleva che gli altri dimenticassero. Continuò a scrivere. E a combattere, o a lottare, come si poteva dire allora, a fianco dei sopravvissuti. E vent’anni dopo, Tina bussò alle nostre porte con un libro bellissimo, questo che oggi viene ripubblicato. Ma troppe porte rimasero chiuse. E troppe orecchie sorde. Debbo dirlo: anche la mia porta rimase sbarrata. Quante cose accadevano nell’Italia del 1983. E quanti libri c’erano da leggere e, talvolta, da scrivere. Perché prendere in mano un libro sul Vajont? Quanti secoli prima era accaduto l’olocausto di Longarone? Possibile che si dovesse ancora scriverne? E chi era questa Merlin Tina? Ah, quella giornalista de «l’Unità» che era stata processata per aver raccontato della diga…

L’ho letto quest’estate il libro di Tina. E ne sono uscito umiliato. Tanti sermoni sul giornalismo di denuncia, sull’informazione come contro-potere, sulle carte false e le carte vere della stampa italiana, senza aver incontrato Tina in queste pagine fatte di verità e di rabbia. Pagine come sassate contro lo specchio dove noi dei grandi giornali rimiriamo soltanto la nostra immagine. Pagine che sono un atto di amore per chi ha patito l’olocausto e un atto di accusa per noi che non abbiamo saputo o voluto raccontarlo come si doveva e si poteva. Pagine dedicate a una storia infinita che, dopo il Vajont, si è ripetuta mille volte in Italia, per trent’anni. Una storia, scriveva Tina nell’introduzione, «contrassegnata dallo stesso marchio: il potere. E dall’uso che ne fanno le classi politiche e sociali che lo detengono».

Ecco, Sulla pelle viva è proprio questo: un libro sul potere come arbitrio e sui mostri che può generare. In fondo, è la storia di Tangentopoli, no? L’arroganza di troppi poteri forti.

L’assenza di controlli. La ricerca del profitto a tutti i costi. La complicità di tanti organi dello Stato. I silenzi della stampa. L’umiliazione dei semplici. La ricerca vana di una giustizia. Il crollo della fiducia in una repubblica dei giusti. C’è tutto questo nel racconto di Tina. E sta in questo la modernità bruciante del suo libro.

Aveva scritto su «Patria», dieci anni fa, la ragazza di Trichiana:

I giorni dopo il Vajont la gente era convinta che la tragedia dovesse essere un punto di partenza per una riflessione collettiva. Dalla quale partire per cambiare, per mettere in discussione rapporti e metodi. C’erano duemila morti ammazzati, dei quali tutti i poteri portavano una responsabilità diretta o indiretta. La Costituzione era stata messa sotto i piedi e si era rivelata incapace di garantire perfino la vita dei cittadini. Da più parti si proclamava, e si prometteva, che occorreva cambiare rotta. Invece, da allora, le compromissioni del potere politico con quello economico sono state infinite e scandalose.

Si sono affinate nella degenerazione di ogni diritto, talché la gente, quella che paga sempre, non crede più in niente e in nessuno. Talché la democrazia non ha più senso e reale consistenza in questo nostro paese governato da gruppi di potere palesi e occulti, dove uomini della politica e uomini dell’economia vanno sotto braccio a quelli della mafia, del terrorismo, della P2, per sostenersi a vicenda…

Semplice, chiaro e diretto. Com’era Tina Merlin. Lei non c’è più a incontrare gli amici nuovi che la conosceranno attraverso le pagine di questo libro. Ci mancherà anche Tina, il 9 ottobre 1993, trentesimo anniversario del Vajont. Ma lei, almeno, può parlare con le parole scritte allora. E può aiutarci a sperare che, dopo tanti olocausti, si riesca, un giorno, a vedere l’alba. Grazie, Tina. E un bacio*.

  • Giampaolo Pansa – Presentazione dell’edizione del 1997.

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