Io Khaled vendo uomini e sono innocente

“Io Khaled vendo uomini e sono innocente” è un libro sicuramente disturbante. Scritto da Francesca Mannocchi, giornalista esperta di Nord Africa e Medio Oriente che, attraverso il racconto di un trafficante di esseri umani di nome Khaled, fotografa con cruda amarezza la situazione della Libia post Gheddafi.
Lo fa attraverso il racconto in prima persona di chi alla “rivoluzione” ed alla deposizione di Gheddafi ha partecipato con una speranza rapidamente tradita.

Una “rivoluzione” che ha semplicemente sostituito gli attori di una tirannia senza produrre alcun processo democratico.

Con Gheddafi il traffico di esseri umani era finalizzato a produrre confusione in Europa favorendo quanta più immigrazione africana fosse possibile, garantendo generalmente per questa ragione il buon esito del viaggio. Con i nuovi padroni il traffico è finalizzato dapprima al solo profitto dei trafficanti per poi allargarsi, in ragione degli ignobili accordi di comodo sottoscritti con la Libia dai paesi europei, ad una platea “istituzionale” che trae vantaggio tanto dal traffico quanto dalla permanenza degli immigrati nei lager libici.

Un racconto crudo e disarmante che, attraverso le competenze conseguite sul campo, l’autrice mette in luce in tutto il suo disumano squallore, del quale il protagonista attribuisce la responsabilità al suo stesso popolo che definisce servo e adolescente.

Questa lettura ci induce ad una riflessione sulle varie “esportazioni di democrazia” e sulla “promozione” che l’Occidente ha strumentalmente fornito alle cosiddette “Primavere Arabe”. Primavere a fronte delle quali abbiamo assistito non già alla realizzazione di processi democratici (non solo in Libia ma anche in Siria, Tunisia e altrove) ma alla disgregazione del contesto sociale e politico di quei paesi. Un auspicabile cambiamento non può storicamente esimersi da una crescita culturale, politica e di coscienza di un popolo. Ed è drammaticamente evidente come l’aver favorito tali processi da parte dell’Occidente sia miseramente legato solo ad interessi economici e di egemonia geopolitica.

Il libro, giustamente, non perdona nulla alla tirannia di Gheddafi ma il fatto che nulla sia cambiato se non nella distribuzione di un potere comunque violento e tirannico, ci offre un altro spunto di riflessione: l’unico elemento venuto a mancare con l’avvicendarsi di questo nuovo corso è quella sorta di stabilità nel mondo arabo che, nel bene e nel male, costituiva una spina nel fianco alle politiche invasive dell’Occidente, oggi legittimato dalla sua vocazione “democratica” e “pacificatoria” nell’intervenire in vario modo in aree un tempo più difficili.

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