“Ormai non esiste famiglia dove non ci sia un figlio, un parente o un amico che non sia disoccupato. Se ne parla come di un appestato, abbassando la voce per non farsi sentire dagli estranei, e comunque sospettando che, sotto sotto, si tratti di un fannullone o di uno scapestrato. Con la disoccupazione giovanile stabile oltre il 40 per cento, l’Italia è oggi un Paese con milioni dì questi fannulloni e scapestrati. Tutte le soluzioni sperimentate finora, compresi i voucher e il jobs act, celano l’intento di ampliare a dismisura un esercito di riserva professionalizzato e docile, disponibile a entrare e uscire dal mondo del lavoro secondo le fluttuazioni capricciose del mercato. Invece bisognerebbe avere il coraggio di affrontare il problema in tutta la sua gravità: la disoccupazione non solo non diminuirà, ma è destinata a crescere. Basta guardarsi intorno: ieri le macchine sostituivano l’uomo alla catena di montaggio, domani software sempre più sofisticati lavoreranno al posto di medici, dirigenti e notai. Insomma, il progresso tecnologico ci procurerà sempre più beni e servizi senza impiegare lavoro umano. E la soluzione non è ostacolarne la marcia trionfale, ma trovare criteri radicalmente nuovi per ridistribuire in modo equo la ricchezza. Per questo i disoccupati e tutti coloro che temono di poterlo diventare, se vogliono salvarsi, devono adottare una precisa strategia di riscatto. Perché pretendere un comportamento e un’etica ritagliati sul lavoro quando il lavoro viene negato? Perché non trasformare i disoccupati in un’avanguardia di quel mondo libero dal lavoro e sperimentare le occasioni preziose offerte da quella libertà? Ciò che oggi si prospetta non è conquistare, lottando con le unghie e con i denti, un posto di ultima fila nel mercato del lavoro industriale, ma sedere nella cabina di regia della società postindustriale. La soluzione è un nuovo modello di sviluppo e di convivenza, che possa condurci verso approdi sempre meno infelici.”
Un pugno nello stomaco, tanto inquietante quanto illuminante. Un libro che si legge d’un fiato e che, al di fuori dei pregiudizi che legano l’autore ai 5 stelle e agli stupidi commenti di coloro che, limitandosi alla lettura del titolo, pretendono di fare sintesi e commenti, analizza in modo profondo ed attento il rapporto inversamente proporzionale che si è instaurato tra progresso tecnologico ed occupazione nel corso del tempo.
L’autore procede su un percorso storico e bibliografico analizzando le sostanziali differenze tra tecnologia meccanica e digitale.
Si parte dall’assunto che il progresso scientifico sia inarrestabile ma che lo stesso sia finalizzato a migliorare la vita umana, sostituendosi alle attività umane più onerose ed ordinarie. Questo dovrebbe avere come conseguenza una distribuzione del benessere e una migliore gestione del tempo libero della collettività.
E’ evidente che delegare alle tecnologie talune attività comporti riduzione dell’occupazione ma, mentre l’avvento della tecnologia meccanica ed elettromeccanica ha prodotto un certo equilibrio, ricollocando la forza lavoro in nuovi ruoli di controllo, manutenzione, gestione e quant’altro, quella digitale sta creando una schiera infinita di disoccupati ed un trend irreversibile.
Il problema non può essere ristretto al progresso scientifico ma va esteso a chi dell’utilizzo di questo progresso è di fatto proprietario, a quel capitalismo/liberismo che nella nostra società del profitto lo utilizza a suo esclusivo vantaggio, concentrando ricchezze enormi in una modestissima percentuale di popolazione, creando una spaccatura sociale infinita tra chi detiene il potere ed una vastissima percentuale di disoccupati, precari, disperati ed occupati a rischio.
Appare evidente ed eticamente incomprensibile il fatto che, a fronte di uno sviluppo tecnologico che aumenta la produttività, non si siano ridotti gli orari di lavoro degli occupati, si sia incentivato lo sfruttamento ed il ricorso agli straordinari, si stiano via via distruggendo tutte le tutele dei lavoratori, si allunghino i termini della pensionabilità e si chiudano le opportunità di lavoro ai giovani. E questo in presenza di un esercito di disoccupati che cresce in continuazione e a dismisura.
Ciò che sul piano teorico dovrebbe garantire migliori condizioni di vita a tutti garantisce nella realtà la sola concentrazione di ricchezze in pochi.
L’avvento dei social, la loro diffusione e le fantasmagoriche quotazioni in borsa rappresentano un imbarazzante esempio dell’utilizzo delle tecnologie digitali: mentre ci si sentiamo fruitori di piattaforme come Amazon, Facebook, Google, Tripadvisor non ci rendiamo conto di essere in realtà degli inconsapevoli produttori che, attraverso post e recensioni più o meno discutibili, alimentano, indirizzano, forniscono contenuti ed indicazioni – a titolo gratuito – finalizzati alla concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di gruppi che occupano poche risorse umane e qualche server.
L’analisi storico/bibliografica di De Masi occupa quattro quinti del libro per approdare ad ipotesi e proposte, talvolta utopiche talvolta condivisibili, non meno interessanti. La sensazione è quella di dover necessariamente rileggere, alla luce di questo irreversibile sfascio, il significato delle parole lavoro, solidarietà, società, attualizzando parametri non più aderenti al nostro contesto e cercando un percorso di non facile cambiamento.