Quando Berlinguer annunciava la palude

Alberto Burgio,  su “il manifesto” del 

berlinguer

I par­titi di oggi sono soprat­tutto mac­chine di potere e di clien­tela. Gesti­scono tal­volta inte­ressi loschi, senza per­se­guire il bene comune. La loro stessa strut­tura orga­niz­za­tiva si è ormai con­for­mata su que­sto modello. Non sono più orga­niz­za­tori del popolo, for­ma­zioni che ne pro­muo­vono la matu­ra­zione civile: sono piut­to­sto fede­ra­zioni di cama­rille, cia­scuna con un boss e dei sotto-boss. Ecco per­ché dico che la que­stione morale è il cen­tro del pro­blema ita­liano. Se si con­ti­nua in que­sto modo, in Ita­lia la demo­cra­zia rischia di restrin­gersi e di sof­fo­care in una palude». A quanti sono tor­nate in mente in que­ste ore le parole di Enrico Ber­lin­guer nella famosa inter­vi­sta alla Repub­blica del feb­braio 1981? Sono tra­scorsi più di trent’anni e la palude ormai ci sommerge.

Nel ven­ti­cin­que­simo della morte ci si ricorda final­mente di Leo­nardo Scia­scia. Anche Scia­scia lan­ciò l’allarme. «La palma va a nord», scrisse: mar­cia alla con­qui­sta del paese. Allu­deva al modello sici­liano d’impasto tra poli­tica e mafia.

Un impa­sto nel quale dap­prin­ci­pio la mafia inti­mi­di­sce e cor­rompe, poi pene­tra le isti­tu­zioni e si fa Stato. Ripe­tu­ta­mente Scia­scia mise in guar­dia dal rischio che que­sto modello si gene­ra­liz­zasse. Oggi fin­giamo di sco­prire che mafia e ‘ndran­gheta si sono sta­bi­lite a Milano e con­trol­lano vasti set­tori dell’economia nazio­nale. E guar­diamo atter­riti al nuovo romanzo cri­mi­nale della mafia romana, edi­zione aggior­nata di quell’universo orrendo che ruo­tava intorno alla banda della Magliana, coin­vol­gendo anche allora mafia, poli­tica e ter­ro­ri­smo neofascista.

In que­sti trenta-quarant’anni non solo non si è fatto argine con­tro il malaf­fare. Lo si è asse­con­dato, lo si è favo­rito. Gli anni Ottanta dell’«arricchitevi!» di cra­xiana memo­ria. Della Milano da bere e del patto scel­le­rato tra Stato e capi­tale pri­vato che aprì le vora­gini del debito pub­blico e dell’evasione fiscale. Poi venne l’unto di Arcore: la poli­tica usata (con la com­pli­cità di gran parte della «sini­stra») per sal­vare le aziende di fami­glia; la lega­liz­za­zione dei reati finan­ziari; l’esplosione delle ine­gua­glianze. E ven­nero le «riforme isti­tu­zio­nali» che, pro­prio per ini­zia­tiva della sini­stra post-comunista, die­dero avvio allo stra­vol­gi­mento maggioritario-presidenzialistico della forma di governo dise­gnata in Costituzione.

Il pre­si­den­zia­li­smo negli enti locali ha reso le isti­tu­zioni più fra­gili e per­mea­bili ai clan anche per effetto di un appa­rente para­dosso. L’accentramento mono­cra­tico del comando è andato di pari passo con la disar­ti­co­la­zione dei par­titi poli­tici, cul­mi­nata nella farsa delle pri­ma­rie aperte. Que­sto pro­cesso ha da un lato azze­rato la dimen­sione par­te­ci­pa­tiva e la fun­zione di orien­ta­mento cul­tu­rale svolta in pre­ce­denza dai par­titi di massa; dall’altro ha pro­mosso una sele­zione per­versa del ceto politico-amministrativo, pre­miando chi aveva le mani in pasta nel mondo degli affari. Così i par­titi – soprat­tutto i mag­giori – si sono ritro­vati sem­pre più spesso alla mercé delle con­sor­te­rie e delle cupole, secondo un mec­ca­ni­smo ana­logo a quello che in altri tempi per­mise a Cosa nostra di coman­dare nella Palermo di Lima, Cian­ci­mino e Gioia.

Ma un ruolo-chiave, in que­sto disa­stro, lo ha svolto anche l’ideologia o, meglio, la sedi­cente liqui­da­zione delle ideo­lo­gie: l’avvento di una poli­tica che si pre­tende post-ideologica, che ha signi­fi­cato in realtà il con­gedo di gran parte della sini­stra ita­liana dalle lotte del lavoro e da una pro­spet­tiva cri­tica nei con­fronti degli spi­riti ani­mali del capi­ta­li­smo. Non è neces­sa­rio, certo, essere comu­ni­sti per com­pren­dere che mora­lità e buona poli­tica sono stret­ta­mente con­nesse tra loro nel segno del pri­mato della giu­sti­zia e del bene comune. Né in linea di prin­ci­pio ade­rire senza riserve alle ragioni del capi­ta­li­smo impe­di­sce di rico­no­scere l’importanza della que­stione morale e di essere «one­sti», per ripren­dere un lemma sul quale si è ancora di recente dibat­tuto. Ma se della mora­lità e dell’onestà non si ha una con­ce­zione povera e astratta, allora si com­prende facil­mente che entrambe coin­vol­gono diret­ta­mente il modo in cui si giu­di­cano l’ingiustizia sociale e il per­si­stere dei pri­vi­legi. Non è un caso che, riflet­tendo sulla que­stione morale, Ber­lin­guer in quella stessa inter­vi­sta parli pro­prio di que­sto. Della neces­sità di difen­dere «i poveri, gli emar­gi­nati, gli svan­tag­giati» e di met­terli dav­vero in con­di­zione di riscat­tarsi. Non è un caso che riven­di­chi le lotte del movi­mento ope­raio e dei comu­ni­sti, non sol­tanto con­tro il fasci­smo e con gli ope­rai, ma anche al fianco dei disoc­cu­pati e dei sot­to­pro­le­tari, delle donne e dei gio­vani. Né è casuale che insi­sta sulle gravi distor­sioni, gli immensi costi sociali, le dispa­rità e gli enormi spre­chi gene­rati dal «tipo di svi­luppo eco­no­mico e sociale capi­ta­li­stico». Per con­clu­derne che esso – «causa non solo dell’attuale crisi eco­no­mica, ma di feno­meni di bar­ba­rie» – deve essere supe­rato, pena il veri­fi­carsi di una cata­strofe sociale «di pro­por­zioni impensabili».

Oggi come allora la que­stione morale inve­ste fron­tal­mente la poli­tica anche per que­sta via: è una fac­cia della sua com­ples­siva dege­ne­ra­zione. Non si tratta sol­tanto di ille­ga­lità, ma anche di irre­spon­sa­bi­lità di fronte alla deva­sta­zione sociale pro­vo­cata da trenta e passa anni di domi­nio del mer­cato, del capi­tale pri­vato, dell’interesse par­ti­co­lare. Que­stione morale e irre­spon­sa­bi­lità sociale della poli­tica non sono, qui e ora, feno­meni indi­pen­denti tra loro, bensì mani­fe­sta­zioni della stessa patologia.

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