Nel secolo scorso le tecnologie erano sostanzialmente meccaniche ed elettromeccaniche, erano tese alla realizzazione di prodotti e, seppure già allora il loro avvento produsse una contrazione dell’occupazione, si ebbe modo di garantire una parziale ricollocazione occupazionale degli addetti nelle attività correlate di gestione, manutenzione, riparazione e quant’altro.
Oggi quando parliamo di tecnologie ci riferiamo principalmente a quelle digitali, quali ad esempio i social e l’informazione.
Nel secolo scorso strumenti assimilabili erano radio e televisione. Prevedevano un “gestore” e dei “fruitori”, figure definite. In qualche modo si subiva l’informazione ma, anche attraverso il contributo dei giornali e delle scarse fonti alternative, si consentiva un margine di spirito critico. Oggi invece è garantita l’interattività, una idea apparentemente democratica, dove il fruitore diventa anche produttore di contenuti, nell’illusione di essere protagonista.
Strumenti che, almeno sul piano teorico, potrebbero costituire un insostituibile fonte di informazione e comunicazione. Strumenti che, in quanto tali, non hanno responsabilità sugli effetti sociali e culturali derivanti.
Resta il nodo di chi ne detiene la raffinata regia.
Si consideri intanto che l’avvento dei social e di piattaforme dall’architettura più articolata come Google, hanno concentrato un immenso potere nelle poche mani di chi li gestisce: il potere di analizzare gusti ed opinioni dei clienti e quello di poter facilmente indirizzare e creare i bisogni degli stessi.
A questo sta facendo seguito una immensa concentrazione di potere economico di queste piattaforme che taglia definitivamente ogni possibilità di ricollocazione occupazionale.
La manovalanza e la produzione è delegata alla schiera dei frequentatori che forniscono, attraverso la continua pubblicazione di contenuti/condivisioni offerti, spesso inconsapevole, materiale ai padroni delle piattaforme.
Google attesta la sua utenza ad oltre un miliardo di persone mentre studi di settore quantificano gli adepti in 2,2 miliardi. Gli iscritti a Facebook, secondo una stima del 2016, sono 1,65 miliardi. 904 milioni sono gli iscritti a Twitter e tutti questi numeri sono simili a quelli delle altre blasonate community. Pensare quindi di arrestare questo fenomeno o far recedere dalle abitudini una tanto vasta popolazione è privo di senso. E’ però altrettanto privo di senso accettare passivamente questa orwelliana condizione.
Umberto Eco ebbe a dire in una intervista di qualche tempo fa:
“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”.
L’affermazione, forse esagerata e provocatoria, non è lontana dalla realtà: ridondano economisti dell’ultim’ora, recensori letterari analfabeti e dislessici, politologi da tastiera, ripetitori di segnali preoccupanti e comuni.
Forse l’unica possibilità di restituire dignità all’informazione e alla condivisione in rete, è quella di selezionare i contenuti, restituendo a queste piattaforme l’identità teorica originale, la valenza sociale di diffusione di notizie e di pensiero, evitando di dimenticare che le cazzate, scritte o condivise, raggiungono una platea di vastità enorme. Solo in questo modo sarà possibile attribuire valore partecipativo e sociale a questi che stanno diventando ignobili carrozzoni.
Zigmunt Bauman, in un’altra intervista, diceva: “La possibilità di essere sempre presenti e di farsi vedere a livello pubblico conferma la propria presenza nel mondo. Il secondo vantaggio offerto dal mondo online è la possibilità di diventare personaggi pubblici senza bisogno di mediazione. Non è più necessario entrare a far parte di un programma televisivo o che si riunisca la redazione di un’importante rivista patinata e scelga di metterci in copertina. No, adesso si può fare tutto da soli. Si può diventare un personaggio pubblico semplicemente premendo un tasto. O basta mandare un tweet. Se si manda un tweet, improvvisamente si raggiungono mille, duemila persone. Da una parte si diventa pubblici, nel senso che si raggiungono tutte queste persone, dall’altra potresti avere dei seguaci. Se qualcuno mette “like” (mi piace) al tuo tweet non sei più solo una persona pubblica, hai anche dei followers e quindi vuol dire che tu vali qualcosa, che tu hai veramente un significato come persona. Questa potrebbe essere un’illusione che però è molto confortante. Grazie all’online la paura dell’emarginazione, del non valere nulla dell’esser escluso completamente dall’accesso alle cose che contano, non esiste più. E questo è uno dei grandi vantaggi associato al mondo online.”
E alla domanda “Quindi, in conclusione, potremmo dire che l’avvento di una nuova tecnologia all’interno di una società ne corrompe la struttura e i valori?” rispondeva:
“No. Concluderei dicendo che ogni nuova tecnologia che si affaccia all’orizzonte determina un guadagno e una perdita. Si perde qualcosa e si guadagna qualcosa. Dobbiamo semplicemente capire se in queste attuali tecnologie il guadagno giustifica le perdite.”