Sorprende dover riscontrare letture più illuminate e condivisibili in argomento su una rivista dei Gesuiti che nelle opinioni diffuse dai social e dalle analisi dell’informazione tradizionale.
Si tratta di un vecchio articolo del 2014 apparso su Aggiornamenti Sociali, a firma del suo Direttore Giacomo Costa.
Recentemente, un terrorista fondamentalista il cui interrogatorio è stato filmato, ha raccontato con crudo realismo come aveva tagliato la gola a un innocente concittadino […]. Il volto di questo boia fondamentalista non mostrava nessun rammarico, nessun pentimento, nessuna pietà. Raccontava i fatti proprio come qualcuno che aveva appena offerto un montone in occasione della Festa del sacrificio. Abbiamo avuto l’impressione di essere di fronte a un mostro degno di Frankenstein, a una macchina fatta per uccidere e distruggere. Tuttavia, il nostro mostro fondamentalista ha invocato il jihâd contro lo Stato idolatra (taghut) e i cittadini che esso aveva sviato per giustificare le sue trasgressioni. Per lui, gli obiettivi di questi odiosi crimini − l’instaurazione di uno Stato islamico e la re-islamizzazione degli algerini – lo autorizzavano a usare qualsiasi mezzo per raggiungere i suoi obiettivi. In altre parole, il fine giustifica i mezzi».Così scriveva vent’anni fa, dunque ancor prima dell’11 settembre 2001, Mahfoud Bennoune (19362004), un antropologo algerino – e musulmano – nel saggio «Come il fondamentalismo ha prodotto un terrorismo senza precedenti» (El Watan, 6 novembre 1994; disponibile in francese e inglese in ), per spiegare che cosa fosse successo in Algeria nel “decennio buio” degli anni ’90. Dopo una lunga trattazione delle radici storiche del fondamentalismo e della sua risorgenza, Bennoune concludeva: «La domanda che si pone oggi è: possiamo dialogare, dibattere, argomentare, discutere, persuadere, convivere, pregare e lavorare con questo homo islamicus fundamentalensis determinato a sterminarci o a “re-islamizzarci”?».
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