Ho avuto ultimamente modo di leggere con piacere due libri sulla Grande Guerra. Il primo “Come cavalli che dormono in piedi”, di Paolo Rumiz, affronta la lettura di quegli eventi in modo onirico, rigettando le logiche dei confini ed attribuendo a tutte le vittime di quel massacro, pari dignità. Ripercorre i luoghi dei massacri con particolare riferimento alle fasi iniziali della guerra, la partecipazione dei trentini e dei giuliani, spingendosi fino alla Galizia, quella zona geografica ricompresa fra Polonia ed Ucraina.
Il secondo, di Aldo Cazzullo, è “La guerra dei nostri nonni: ’15 – ’18: storie di uomini, donne e famiglie”. Con una lettura e un’aneddotica più tradizionale, prende in esame il periodo successivo all’entrata in guerra dell’Italia, omettendo molti degli aspetti affrontati da Rumiz. Affronta, in modo originale, anche la trasformazione dei costumi sociali in ragione degli eventi di quegli anni.
Sicuramente interessante, questo libro mi ha lasciato perplesso per alcune considerazioni sintetizzabili in due frasi: “…il nonno come tutti gli italiani della sua generazione detestava gli austriaci ed i tedeschi” e “La Grande Guerra 1914-1918, che noi italiani chiamiamo 15-18…”
La prima affermazione credo non sia del tutto corretta. Pur non volendo esprimere giudizi di merito e ancor meno giudizi favorevoli nei confronti dell’impero austro-ungarico, è necessario riconoscere che tra i paesi che ne facevano parte si era creata una identità culturale, non relazionata a confini geografici, che aveva di fatto generato una coesione transnazionale, crogiolo della cultura mitteleuropea.
Non è quindi del tutto vero che tale identità fosse da tutti gli italiani rigettata.
Anche la seconda affermazione, per quanto corretta vista l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, non può trascurare quanto accaduto nel semestre precedente. La guerra alla Serbia, covata in precedenza ed esplosa a seguito dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, vede 130mila italiani, provenienti da Trento e Trieste, aderire al fianco dell’Impero Austro-Ungarico e morire sul fronte della Galizia.
Sono, da parte paterna, originario della Val di Fiemme, una valle alle pendici della catena del Lagorai, teatro e spartiacque di quella guerra e, fino ad una quindicina di anni fa, nella piccola Val di Sadole, alla pendici del Cauriol, della Busa Alta e del Cardinal, si riunivano ogni anno i reduci italiani ed austriaci della Grande Guerra, in una comunione che prescindeva dai confini geografici artificiosi successivi alla fine del conflitto.
Mio nonno, che non ho mai conosciuto e che è morto quando mio padre aveva circa quattordici anni, era uno Standshutzen.
Se è vero che la propaganda dominante “indusse” molti italiani a sposare la causa dell’impero austro-ungarico, è pur vero che i propositi risorgimentali degli irredentisti, inizialmente promossi anche dai socialisti, naufragarono rapidamente fagocitati da logiche ben meno nobili. La folle spietatezza dei Cadorna, Badoglio e Graziani si espresse con barbarie, in questa guerra ed anche in campagne successive, non solo nei confronti dei nemici ma anche delle stesse truppe italiane, cui non fu risparmiata immotivata e barbara violenza. Gli Arditi impegnati nella Grande Guerra aderirono rapidamente e quasi totalmente alle profferte fasciste. Gli intellettuali non furono da meno, esprimendo da D’Annunzio a Marinetti, tutto il peggio che una follia farneticante poteva offrire. Sappiamo bene quale buio abbia fatto seguito all’impero: nell’arco di trent’anni, più che una guerra un massacro senza pari, l’avvento del fascismo, delle invasioni e dei massacri coloniali, del nazismo ed una nuova guerra mondiale.
La rappresentazione data agli eventi da parte dei nazionalisti, degli irredentisti e della follia dannunziana ha omesso sovente negli anni questi elementi.
Cerco di documentarmi su quella guerra e trovo difficoltà a riconoscere a quella carneficina – che vide morti da tutte le parti (4mln da parte austro-ungarica ed ottomana, 6mln da parte delle forze alleate) – un valore maggiore dello stravolgimento di confini culturali in favore di confini geografici.
Ben lontano dall’idea di schierarmi, non posso non riconoscere l’importanza di quel semestre e di una forse discutibile espressione di un cuore europeo che il nostro patetico tentativo, a distanza di cento anni, non è riuscito a riproporre neanche in minima parte.
Credo quindi che il ricordo e la ricostruzione corretta della Grande Guerra non possa trascurare quei fatti e quei morti.
Un saluto.