Lo spettro della barbarie in Europa

Per favorire un distopico quanto improbabile ritorno alla “politica” bisognerebbe costringere i partiti azienda a ritrovare identità e ruolo.
Non credo che attribuire un voto ai sedicenti e pretesi eredi della sinistra che negli ultimi decenni hanno realizzato ancor meglio dei loro supposti avversari (?) le politiche liberiste sia una soluzione percorribile. Tanto meno credo meritino attenzione le vetero gerontocrazie di coloro che, fermi a cinquant’anni fa, continuano nell’incapacità di interpretare un presente che gli riconosce un merito dello 0,05%.
La ricostruzione della sinistra e delle coscienze presuppone un impegno diverso e gravoso, l’intercettazione dei giovani, del mondo associativo e di sensibilità diverse e un tempo radicate che ho visto tramontare con l’avvento dell’unica rivoluzione che si è realizzata, quella liberista.
Viviamo quindi un periodo in cui la politica ha perduto il suo ruolo ed è diventata diretta emanazione del mercato e garanzia di un modello di sviluppo globale in evidente ed irreversibile crisi.
A questo sfacelo collaborano fattivamente le destre che, prive di contenuti e soluzioni, si impegnano nell’alimentare un livello di scontro affine al tifo da stadio, puntando ad occupare tutti gli spazi possibili, limitando la libertà di informazione ed il dissenso a garanzia della loro sopravvivenza, creando i presupposti per il radicamento di una “cultura” cara a molti italioti che non hanno ancora superati i “fasti” del ventennio.
Un quadro devastante che genera ancor più preoccupazione se si considera che questa situazione trova affinità e seguaci in gran parte d’Europa e che difficilmente può essere ostacolata dalle lotterie elettorali.
Un quadro che trova ampio riscontro in quei pensieri notturni che Paolo Rumiz ha raccolto nel suo ultimo libro “Verranno di notte – lo spettro della barbarie in Europa” pubblicato da Feltrinelli.

Paolo Rumiz è un giornalista e scrittore italiano, nato a Trieste il 20 dicembre 1947. La sua carriera giornalistica è iniziata nel 1971 presso il quotidiano “Il Piccolo” di Trieste, dove ha lavorato come redattore e inviato speciale. Nel 1986 è entrato a far parte de “La Repubblica”, offrendo ai lettori i suoi reportage dal fronte durante le guerre nei Balcani negli anni ’90.

Rumiz è celebre per i suoi viaggi, spesso intrapresi a piedi, in bicicletta o in treno, attraverso l’Europa e oltre.

Il suo stile di scrittura è caratterizzato da una profonda attenzione ai dettagli e da una capacità di cogliere le sfumature delle culture locali, rendendo i suoi racconti non solo informativi ma anche vividamente evocativi.

E’ un appassionato sostenitore della lentezza e della mobilità sostenibile, valori che promuove attraverso i suoi scritti e le sue iniziative pubbliche.


Treni, profughi, convogli militari nel buio.
In una lunga insonnia accanto alla stufa accesa, sulla frontiera dell’Est, Paolo Rumiz sente la notte di malaugurio di un’Europa assediata da guerre e governata dai poteri selvaggi dell’economia. Riceve segnali allarmanti da Francia, Germania, Spagna, Grecia e Paesi Baltici e si chiede come resistere a tutto questo. Orwell è entrato anche a Bruxelles, i princìpi della Costituzione europea sono in macerie, le sbarre di confine ritornano. Intorno, guerra contro le vite umane che migrano, guerra di tutti contro tutti, disumanità e indifferenza.

L’uomo nel buio sente che i barbari possono arrivare in qualsiasi momento, e capisce che non basta la parola “fascismo” a definirli. Dietro al fascismo c’era un’idea di società, dietro a costoro c’è un’identità costruita da influencer e priva del profumo dolce della patria. Ed è di notte che essi si muovono, digitando parole di odio in rete. I nuovi barbari si servono meglio di chiunque altro di questa macchina perversa per occupare il vuoto politico lasciato da una sinistra inconsistente, lontana dal popolo e priva di etica.
Ma proprio quando “tutte le fisarmoniche della notte sembrano suonare assieme”, Rumiz scopre una miriade di punti luce dall’Atlantico alle terre dell’Est. In Germania, ma anche altrove, sono scesi in piazza a milioni contro i sovranisti. Allora sente crescere in sé il demone dell’ironia e della lotta, e al tempo stesso la fiducia nella forza della parola di cui si sente custode. Poi il cielo si schiara, e le ombre fuggono negli anfratti del bosco.

Quelli come me non hanno che parole da offrire. Ma le parole non sono poco, in questo sconfortante silenzio.

presentazione tratta dal sito Feltrinelli

il cuscinetto

Con le nazioni ho il dente avvelenato. Un conto personale da regolare.
Sono di Trieste, c’è da capirmi.
Le nazioni hanno sfasciato il mio impero, che era un’Europa in miniatura.
Anzi, più Europa di tutti gli altri imperi, perché non aveva colonie e bastava a sé stesso.
Non era il migliore dei mondi possibili, ma tutti andavano a scuola e la burocrazia era onesta.
Dal porto di casa mia si raggiungevano tre continenti. E poi banche, assicurazioni, teatri, chiese di tutte le confessioni e religioni.
Il vecchio Franz non si rivolgeva al popolo, ma ai suoi popoli.
I palazzi di Trieste sul fronte mare portano ancora i segni di quell’epoca d’oro.
L’Altissimo aveva piazzato l’Austria-Ungheria proprio in mezzo, a far da cuscinetto fra l’Europa delle steppe e l’Europa dei mari.
C’è un posto, nel cuore della polveriera balcanica, che indica come l’Europa imperiale fosse più seria di quella di oggi. La chiesa della pace di Sremski Karlovci sul Danubio, in territorio serbo.
Quando nel 1699 gli Asburgo scelsero di chiudere da vincitori la guerra col Turco, costruirono su una collina un edificio in legno con all’interno una tavola rotonda destinata a mettere sullo stesso piano tutti gli attori della trattativa. E fu la pace di Carlowitz, che sancì tra i due Paesi uno dei confini più longevi della storia d’Europa. Lo stesso che oggi separa la Bosnia dalla Croazia.
Due secoli dopo, l’Austria decise di trasformare l’edificio in una cappella egualmente rotonda e con quattro ingressi equidistanti: uno per i cattolici, uno per gli ortodossi, uno per i musulmani e uno per gli ebrei. Una vana speranza di pacificare il vespaio balcanico. E un’attenzione commovente ai simboli, che oggi abbiamo perduto.
Lo stesso vale per i cimiteri militari austroungarici della Grande guerra sul fronte orientale, dove il nemico russo venne accolto con pari dignità, in un abbraccio fraterno che si sperava portasse alla pace.
Capisco perché l’hanno fatto a pezzi, l’impero dei miei nonni. Quella congerie di popoli uniti dava proprio sui nervi alle nazioni. Gli andava specialmente di traverso la pretesa dell’Austria-Ungheria di far da cuscinetto tra due mondi, per evitare conflitti.
Oggi, in assenza di imperi, tutti sognano di allargarsi. Gridano: “È mio, è mio!”, sognano una Grande Serbia, una Grande Albania, una Grande Ungheria, una Grande Bulgaria. Intanto la Grecia detesta la Macedonia, e la Croazia si sente antemurale della cristianità cattolica.
Oggi che lo spazio cuscinetto è saltato e la Nato si è spinta a est a contatto con l’altra Europa, gli effetti si vedono. Russia e Occidente si ringhiano addosso, per la felicità dei mercanti d’armi e della mafia mondiale. Col rischio di un effetto domino simile a quello del 1914.

Un grande risultato.

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