Una grande manifestazione, un fiume di gente chiassosa e coinvolta. Un’espressione di forza, di proposta, di volontà di cambiamento.
Ma pensavo a quelli di noi che non c’erano. A quelli che pensano che il loro contributo non sia necessario, che intanto nulla cambia, che restano ad osservare…
Si, noi pronti a sterilmente giudicare da sconfitti disillusi ciò che ci circonda. Siamo i primi responsabili delle nostre sorti e dell’allucinazione che stiamo vivendo.
E’ legittimo giudicare una sinistra immobile, un sindacato debole, un mondo risucchiato in un gorgo dantesco…
Ma noi cosa facciamo? Dove siamo? Ciò che ci circonda pienamente ci rappresenta.
Ci accontentiamo, squallidi, di coltivare qualche nostra piccola soddisfazione nel nostro ristretto microcosmo, dimenticando il mondo che ci siamo regalati e stiamo regalando ad altri. Di ciò che ci circonda noi siamo i primi protagonisti.
Con la spocchiosa tracotanza di chi ha tutto chiaro in testa sconfiniamo spesso nel più dozzinale qualunquismo.
Confondiamo in una presuntuosa saccenza la nostra incapacità di vivere come un tempo ci accadeva le nostre emozioni, i nostri ideali.
Ed è invece proprio lì la nostra sconfitta… pretesa coscienza.
Emozioni che ieri in piazza alla manifestazione della Fiom ho rivisto in alcuni compagni metalmeccanici che stanno vivendo sulle loro spalle il dramma che tutti vediamo intorno a noi. Che ho rivisto nello sconosciuto incontrato in metro e che mi ha stretto la mano ritrovandomi in corteo. Negli sguardi e nello stupore di coloro che non pensavi di incontrare. Nella delusione di non incontrare chi eri certo che ci fosse.
Questo paese è alla frutta e sicuramente non c’è chi ci dovrebbe rappresentare. E non c’era neanche ieri.
Ma è proprio lì il punto. Per ricostruire qualcosa bisogna farlo dal basso e c’è bisogno di tutti. Per dirla come una vecchia canzone, nessuno si senta escluso.